lunedì 25 giugno 2018

L'ELOGIO ALLA FOLLIA

Erasmo ha posto tutto il suo lavoro alla libertà di agire secondo la propria volontà, senza influenze o condizionamenti esterni. La sua figura di intellettuale, sia in campo filosofico che teologico, non  si risolve in maniera completa, ma spesso si lascia guidare dalla necessità della polemica.
Erasmo da Rotterdam ha studiato per primo la Follia e per fare questo, doveva essere anche lui medesimo un Folle. Egli ha posto tutto il suo lavoro alla libertà di agire secondo la propria volontà, senza influenze o condizionamenti esterni. Lo sforzo d’Erasmo da Rotterdam è di mettere sulla stessa linea la fede con l'erudizione e il bello stile, come se fossero valori equivalenti. Vuole affermare la sostanziale identificazione dei valori più autentici del Cristianesimo con la sapienza antica. Cerca quindi di togliere al Cristianesimo le asprezze e le affermazioni assolute. Aveva quindi cercato un equilibrio fra la pura moralità evangelica e la sobrietà e misura pagana;  opposizione tra valori autentici e valori inconsistenti, nell'equilibrio e dominio di se stessi, in contrapposizione con i beni mondani ed esteriori. La satira erasmiana, apparentemente spregiudicata, è densa di motivi etici. Nell’"Encomium" alla Follia celebra le sue glorie e dichiara di voler fare l'elogio di sé come dominatrice del mondo; tutti gli uomini infatti sono a Lei (Follia) obbedienti e tutti contribuiscono al suo successo perché essa domina ovunque: nell'amore, nella guerra, tra i teologi, tra i poeti, tra gli scienziati, tra i filosofi. La Follia in Erasmo prende il nome di "Moria" come la parola latina la identifica nel lessico del suo tempo; nel suo scritto è la Moria stessa a descrivere se stessa come portatrice di allegria piena di spensieratezza che si rileva anche nel linguaggio diretto.Nel suo saggio si riportano numerosi esempi e citazioni a favore della sua grandezza vista e considerata come SORGENTE DI PAZZIA e della sua utilità per la felicità dell'essere umano. Essa in particolare secondo Erasmo si rivela insita nell'uomo fin dall'atto stesso della nascita. E' lei stessa che parla nell'Elogio chiarendo che "qualsiasi cosa dicano di me i mortali, non ignoro, infatti, quando la Follia sia portata per bocca anche dei più folli, ecco qui la prova decisiva che io, io sola, dico, ho il dono di rallegrare gli Dei e gli uomini.

Non appena mi sono presentata per parlare a questa affollatissima assemblea, di colpo tutti i volti si sono illuminati di non so quale insolita ilarità. D'improvviso le vostre fronti si sono spianate, e mi avete applaudito con una risata così lieta e amichevole che tutto voi qui presenti, da qualunque parte m giri, mi sembrate ebbri del nettare misto a nepènte degli Déi di Omero, mentre prima sedevate cupi e ansiosi come se foste tornati dal'altro di Trifonio. Appena m avete notata, avete cambiato subito faccia, come di solito avviene quando il primo sole mostra alla terra il suo aureo splendore, o dopo quando un crudo inverno, all'inizio della primavera, spirano i dolci venti di Favonio, e le cose mutando, di colpo assumono nuovi colori e tornano a vivere visibilmente un'altra giovinezza. Così col mio solo presentarmi sono riuscita a ottenere subito quello che oratori, peraltro insigni, ottengono a stento con lunga e lungamente mediata orazione. Perché poi io sia venuta qui oggi, e vestita in modo così strano, lo saprete fra poco, purché non vi annoi porgere orecchio alle mie parole: non quell'orecchio, certo, che riservate agli oratori sacri, ma quello che porgete ai ciarlatani in piazza, ai buffoni, ai pazzerelli: quell'orecchio che il famoso Mida, un tempo dedicò alle parole di Pan. Mi è venuta infatti voglia di incarnare con voi per un po' il personaggio del sofista: non di quei sofisti, ben inteso, che oggi riempiono la testa dei ragazzi di capziose sciocchezze addestrandoli a risse verbali senza fine, degne di donne pettegole; io imiterò quegli antichi che per evitare l'impopolare appellativo di sapienti, preferiscono essere chiamati sofisti. Ascolterete dunque un elogio, e non di Ercole o di Solone, ma il mio: L'ELOGIO DELLA FOLLIA. Certamente, io non faccio alcun conto di quei sapientoni che vanno blaterando dell'estrema dissennatezza e tracotanza di chi si loda da sé; sia pure Folle quando vogliono; dovranno riconoscere la coerenza; CHE COSA C'E', INFATTI, DI PIU' COERENTE DELLA FOLLIA CHE CANTA LE PROPRIE LODI? CHI MEGLIO DI ME POTREBBE DESCRIVERMI? A meno che non si dia il caso che a qualcuno io sia più nota che a me stessa. D'altra parte io trovo questo sistema più modesto, e non di poco, di quello adottato dalla massa dei grandi e dei sapienti; costoro, di solito, per una falsa modestia, subornano qualche retore adulatore, o un poeta debito al vaniloquio, e lo pagano per sentirlo cantare le proprie lodi, e cioè un sacco di bugie. Così il nostro fiore di pudicizia drizza le penne come un pavone, alza la penne come un pavone, alza la cresta, mentre lo sfacciato adulatore lo va paragonando, lui che è un pover uomo, agli dei, e lo propone quale modello assoluto di virtù, lui che da quel modello sa di essere lontanissimo. Insomma, veste la cornacchia con le penne altrui, fa diventare bianco l'Etiope, e di una mosca fa l'elefante. Io invece seguo quel detto popolare secondo il quale, "chi non prova un altro lo lodi, fa bene a lodarsi da sé." Tuttavia devo esprimere la mia meraviglia per l'ingratitudine, o come dire? Per l'indifferenza dei mortali. Tutti mi fanno la corte e riconoscono di buon grado i miei benefici, eppure, in tanti secoli, non si è trovato nessuno che desse voce alla gratitudine con un discorso in lode alla Follia, mentre non è mancato chi con lodi elaborate ed acconce, e con grande spreco di olio e di sonno, ha tessuto l'elogio a Busiride, di Falaride, della febbre quartana, delle mosche, della calvizie, e di altri flagelli del genere.
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Tutti mi fanno corte e riconoscono di buon grado i miei benefici, eppure, in tanti secoli, non si è trovato nessuno che desse voce alla gratitudine con un discorso in lode alla Follia, mentre non è mancato chi con lodi elaborate ed acconce, e con grande spreco di olio e di sonno, ha tessuto l'elogio di Busiride, di Falaride, della febbre quartana, delle mosche, della calvizie, e di altri flagelli del genere. Da me ascolterete un discorso estemporaneo e non elaborato, ma tanto più vero. Non vorrei però che lo riteneste composto per farvi vedere quanto sono brava, come usa il banco dei retori. Costoro, come sapete, giurano che l'hanno buttata giù, e magari dettata, in tre giorni, quasi per svago. A me, invece, è sempre piaciuto moltissimo dire tutto quello che mi passa in mente. Nessuno, perciò, si aspetti da me che, secondo costume di codesti oratori da strapazzo, definisca la mia essenza, e tanto meno che la distingua analizzandola. Sono infatti cose da malaugurio, sia porre dei confini a colei il cui potere è sconfinato, sia introdurre delle divisioni in lei, il cui culto è oggetto di così universale consenso. Sono come mi vedete, quell'autentica dispensatrice di beni che i Latini chiamano STULTICIA e i Greci MORIA. Da me è lontano ogni trucco; non simulo in volto una cosa, mentre ne ho un'altra nel cuore. Sotto ogni rispetto sono a tal punto inconfondibile, che non posso tenermi nascosta; nemmeno quelli che si arrogano la maschera e il titolo della Saggezza, e se ne vanno in giro come scimmie ammantate di porpora o come asini vestiti della pelle del leone.
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Intendo imitare i retori del nostro tempo, che si credono proprio degli Dei. Tra gli eletti piaceri dei nostri contemporanei, infatti, c'è anche questo: esaltare tanto di più una cosa, quanto è più straniera. I più ambiziosi ridono e applaudono, e, come gli asini, muovono le orecchie dando ad intendere agli altri di avere capito tutto.

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Con quale altro più nobile appellativo potrebbe la dea Follia chiamare i suoi iniziati? Ma poiché non a molti sono ugualmente noti i miei maggiori, con l'aiuto delle Muse tenterò di parlarne.


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