lunedì 9 luglio 2018

11. NIETZSCHE


DOBBIAMO, DI TANTO IN TANTO, RIPOSARCI DAL PESO DI NOI STESSI, VOLGENDO LO SGUARDO LÀ IN BASSO SU DI NOI, RIDENDO E PIANGENDO SU NOI STESSI DA UNA DISTANZA DI ARTISTI: DOBBIAMO SCOPRIRE L’EROE E ANCHE IL GIULLARE CHE SI CELA NELLA NOSTRA PASSIONE DELLA CONOSCENZA, DOBBIAMO, QUALCHE VOLTA, RALLEGRARCI DELLA NOSTRA FOLLIA PER POTER STARE CONTENTI DELLA NOSTRA SAGGEZZA.

Nietzsche elogia la Follia in un significato tale che chi si rallegra di questa è perché ha capito che solamente accettandola si può raggiungere saggezza e sapienza. E’ dunque la Follia, l’abbandono degli schemi e della morale la via che può condurci alla saggezza? Tutta la filosofia del filosofo, fortemente influenzata da Schopenauer, vede nell’abbandono della morale e nella consapevolezza della Follia vista come l’essere la via per l’accesso alla saggezza, il modo ottimale di vivere. Il caso volle che proprio la follia (vista nel suo estremo di Malattia nella concezione Reekiana) colpì il filosofo negli ultimi anni della sua vita, riducendolo ad uno stato catatonico, di vegetale. Ma cosa intende realmente Nietzsche? Perché vede nella follia e soprattutto nell’abbandono degli schemi imposti dalla morale la reale fonte di saggezza? Egli è fermamente convinto che la morale non esista o meglio che la morale non sia la base attraverso la quale le nostre azioni prendono corpo, bensì pensa che sia lo strumento ideato dai deboli per sfuggire dal caos, e sopraffare i più forti, il “SUPERUOMO”, colui cioè che riesce a VEDERE OLTRE, a vedere la vita e l’esistenza per quello che è: “CAOS“. Per il filosofo è stato il pensiero di Socrate e Platone, fortemente incentrato su razionalità e morale, ad allontanare l’individuo dalla verità, dalla reale percezione dell’esistente e dare il la alla nascita del Cristianesimo. L’uomo invece dovrebbe prendere atto della naturale casualità degli eventi e dell’esistenza, dell’assenza del “mondo delle idee” Platonico, capire che “Il rimedio è stato peggiore del male” ovvero la formulazione di rimedi metafisici per cercare di comprendere e dare una definizione del caos ha allontanato ancor più l’individuo dalla verità, dal reale che altro non è che caos allo stato puro, indeterminatezza, indefinibilità; combattere l’ignoto significa allontanarsi dalla vita.

Ogni parola è di troppo, eppure il silenzio è troppo poco e non riesce a riempire – con i suoi vuoti – i dubbi che si presentano. È nell’interstizio fra silenzio e parola che si dipana il discorso sulla Follia, il discorso della Follia. 

Possibile darle la parola? E, se sì, quale linguaggio parlerà? 
Se la follia è l’alterità per eccellenza, l’uscita dal solco della Ragione, e se il linguaggio è l’espressione di questa Ragione, potremmo ritenere che discorrerà in un linguaggio suo proprio – proprio non della Follia in quanto tale, ma del Folle preso nella sua singolarità? 
Un linguaggio a cui manchi il fine del linguaggio: la comunicazione. Un linguaggio “senza senso”, e quindi folle, che si racconta in parole che non arrivano in alcun luogo, parole senza un possibile orecchio in ascolto. È un dialogo possibile, quello tra Follia e linguaggio? Quale ruolo potrà mai giocare la filosofia in questa difficile partita?Dal dedalo di interrogativi irrisolti (irrisolvibili?) emerge una figura: Friederich Nietzsche, il filosofo Folle. Paradosso fra i paradossi: la filosofia, la quale storicamente avanza in compagnia di una razionalità che ritiene di poter chiarire ogni cosa, viene ribaltata nel suo contrario; ribaltata in un pensiero che si nega in quanto razionale, e si afferma come istintuale, vitale, immanente al corpo. È proprio tramite questo corpo che si può accedere ad una dimensione del pensiero finora preclusa o, a considerare Descartes, accuratamente marginalizzata e assolutamente da evitare. 

Un “pensiero abissale” che per essere sostenuto necessita di uno spirito eccezionale: “Voi non siete aquile: così non avete neppure vissuto la felicità che risiede nel terrore dello spirito. E chi non ha ali non deve mettersi al di sopra di abissi”. È stato, Nietzsche, in grado di afferrare e affermare fino in fondo il suo pensiero abissale? O ne è stato piuttosto schiacciato? 

Duplice modo di leggerne la follia: 

1.intima e profonda liberazione;

2. sconfitta e negazione del superamento di ogni limite umano oltrepassado il linguaggio attraverso il principio della la fine di una comunicazione “razionale”
o cadendo dal linguaggio, impossibilitati ad accedervi per il non superamento dei vincoli razionali per affermare infinitamente il sé, o invece chiusura di quegli stessi vincoli, che schiacciano e negano ogni movimento del pensiero e quindi anche il sé, in un’afasia senza vie d’uscita.

“Le più antiche credenze metafisiche saranno l’ultima cosa di cui ci sbarazzeremo, se mai potremo sbarazzarcene – quelle credenze che hanno preso corpo nella lingua e nelle categorie grammaticali, rendendosi talmente indispensabili, che potrebbe sembrare uno smettere di pensare, se rinunciassimo a questa metafisica”

Nietzsche, volendo superare ogni metafisica, non poteva, nell’ultimo gesto della sua filosofia rivoluzionaria, risparmiare il linguaggio, così carico di storia, di esperienze, di legami, di logica razionale. Potrebbe sembrare uno smettere di pensare, se rinunciassimo a questa metafisica: nelle parole del Nietzsche “quasi” folle, che già iniziano a scavarsi un solco attorno, si intravede la lungimiranza della condanna che subirà solo pochi mesi dopo, e che negli anni successivi avrebbero squalificato il suo pensiero in quanto “folle”.

Un’incomprensione – quella dei contemporanei di Nietzsche – che ha origine nel linguaggio stesso del filosofo, linguaggio “folle” perché nuovo ed estraneo ad ogni Ragione anteriore. “Chi non ha accesso per esperienza a certe cose, non ha neppure orecchie per udirle”4. La propria vita è la condizione prima e necessaria da cui partire per leggere il mondo: chi difetta di una certa esperienza, non potrà avere occhi né orecchie per cogliere quella particolare fetta di mondo. “Un libro che parli solamente di esperienze che stanno al di là delle possibilità dell’esperienza comune, o magari anche piuttosto rara – e che perciò sia il primo linguaggio per una nuova serie di esperienze. In questo caso semplicemente nessuno udrà niente, con l’illusione acustica per cui, là dove non si ode niente, non deve esserci niente”5. Il linguaggio di Nietzsche – nel momento in cui viene bollato come “folle” – viene espressamente negato, in un gioco di esclusione in cui la Ragione individua e identifica l’estraneo da sé e lo squalifica, negandogli ogni legittimità di esistenza.

Le prospettive in cui ci si colloca sono diverse: vita immediata da un lato, esperienza filtrata attraverso il linguaggio dall’altro: impossibile conciliarle, prima o poi il loro scontro genererà scintille (la maschera non aderisce mai perfettamente al volto nudo – sempre che sia possibile trovare, alla fine, un volto dietro la maschera), facendo dell’uomo che ha voluto vivere il paradosso (e al tempo stesso de-scriverlo) una fiamma capace di inghiottire le poche parole sopravvissute al suo immane esercizio critico. “Volete riscaldarvi a me? Vi consiglio di non avvicinarmi troppo: potreste bruciarvi le mani. Perché, vedete, sono troppo ardente. A fatica impedisco alla mia fiamma di divampare fuori dal corpo”

Ogni nome, mentre vuole avvicinarsi all’oggetto di cui tenta di racchiudere il significato (credendo così d’identificarne la verità), fino a coincidere con esso, crea invece una distanza infinita ed incolmabile. Zarathustra svela l’inganno del linguaggio ma al tempo stesso è obbligato a collocarsi nel linguaggio, proprio quando vuole provare a comunicare al mondo il suo pensiero. Eppure vi si colloca in un modo che già richiama la Follia, con la forza espressiva di un poeta che sente il richiamo fortissimo del silenzio.

“Come il castello di Kafka, il culmine alla fine non è che l’inaccessibile. Si sottrae a noi, almeno in quanto continuiamo a essere uomini: a parlare”  La parola abbassa, volgarizza (nel senso etimologico del termine), allontana dal “culmine” ogni sentire – il quale, in quanto proprio della singola individualità, è all’occhio altrui lontano quanto incomprensibile. Il silenzio spesso invocato da Nietzsche – un silenzio che non è necessariamente vuoto e assenza di pensiero, ma forse semplicemente un sottrarsi alle regole finora date al pensiero, un collocarsene al di fuori – prende infine vita, in senso radicale, nella sua “follia”. Possibile allora considerarla come conseguenza ultima e inevitabile (conseguenza cui bisogna però togliere il carattere di consequenzialità: qui non c’è causa né effetto, ma un’unica volontà) del suo pensiero? come gesto di enorme e profonda rivoluzione nei confronti della Ragione? come unica possibilità per affermarsi al di fuori di ogni vincolo e condizionamento esterno? 

Anche a queste domande, forse, possiamo rispondere solo con il silenzio.

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