BLOOM
Open your mouth wide
The universal sigh
And while the ocean blooms
It’s what keeps me alive
And while the ocean blooms
It’s what keeps me alive
So why does it still hurt?
Don’t blow your mind with whys
Don’t blow your mind with whys
I’m moving out of orbit
Turning in somersaults
A giant turtle’s eyes
As jellyfish float by
Turning in somersaults
A giant turtle’s eyes
As jellyfish float by
TRADUZIONE
E COMMENTO:
SBOCCIO
Spalanca
la bocca
Con un sospiro universale
Mentre l’oceano sboccia
Questo è quel che mi tiene in vita
Con un sospiro universale
Mentre l’oceano sboccia
Questo è quel che mi tiene in vita
Allora
perché fa ancora male?
Non perdere la testa con le domande
Non perdere la testa con le domande
Mi sto
muovendo fuori dall’orbita
Ruotando con capriole
Gli occhi di una tartaruga gigante
E una medusa mi fluttuano vicino
Ruotando con capriole
Gli occhi di una tartaruga gigante
E una medusa mi fluttuano vicino
COMMENTO:
Parlando un paio d'anni fa (forse un po' troppo esageratamente bene) di In Rainbows lo si definiva un disco che suonava ormai squisitamente “classico”, portando avanti il discorso intrapreso con Hail to the thief, ossia un voler “raccogliere i frutti cresciuti dai semi sparsi in un lustro straripante dal punto di vista creativo” senza la volontà di sedersi ma mostrando di voler “esplorare fino in fondo le potenzialità offerte dalle passate scoperte”.
The king of limbs sembra ulteriormente confermare quelle precise parole. L'album infatti, pur essendo estremamente breve per i soliti canoni cui siamo abituati (37 minuti per otto brani) sembra strutturarsi su due grandi direttive: la prima parte più votata all'elettronica, nel tentativo di riallacciarsi al filone Amnesiac-Kid A, la seconda rievocante ampiamente certe atmosfere struggenti e liriche tipiche di Ok Computer. Il tutto però realizzato senza separazioni rigide ma con innesti e intrecci reciproci, quasi come se le due anime del gruppo vivessero una vita propria coscienti l'una dell'esistenza dell'altra. Ne viene fuori un dualismo che rende la prima parte decisamente più intrigante e dinamica, fin dall'iniziale Bloom: tribalismo dinamico steso su un tappeto liquido di synth in loop. Basi alla Four Tet che si scontrano con le ritmiche selvagge di gente come i Liars, il tutto (estremamente affascinante nella sua raffinatezza) addolcito dal cantato malinconico di Thom Yorke. La marcetta iniziale “Bloom” racchiude perfettamente il senso dell’album: in bilico tra frastagliate linee ritmiche, superficiale freddezza e aperture alla Björk di “Debut” e “Homogenic”. Il canto sinuoso di Yorke al solito si pone da contraltare rispetto alla struttura, creando un perfetto incrocio tra calore e distacco.
TORNA A CONCERTO RADIOHEAD PARCO DELLE CASCINE FIRENZE PERSONALIZZATO IN PROSPETTIVA DEL FUTURO CONCERTO 14-06-2017 DA REEKO
VAI A CONCERTO RADIOHEAD 23-09-2012 PARCO DELLE CASCINE FIRENZE
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COMMENTI PER IL LETTORE:
Parlando un paio d'anni fa (forse un po' troppo esageratamente bene) di In Rainbows lo si definiva un disco che suonava ormai squisitamente “classico”, portando avanti il discorso intrapreso con Hail to the thief, ossia un voler “raccogliere i frutti cresciuti dai semi sparsi in un lustro straripante dal punto di vista creativo” senza la volontà di sedersi ma mostrando di voler “esplorare fino in fondo le potenzialità offerte dalle passate scoperte”.
The king of limbs sembra ulteriormente confermare quelle precise parole. L'album infatti, pur essendo estremamente breve per i soliti canoni cui siamo abituati (37 minuti per otto brani) sembra strutturarsi su due grandi direttive: la prima parte più votata all'elettronica, nel tentativo di riallacciarsi al filone Amnesiac-Kid A, la seconda rievocante ampiamente certe atmosfere struggenti e liriche tipiche di Ok Computer. Il tutto però realizzato senza separazioni rigide ma con innesti e intrecci reciproci, quasi come se le due anime del gruppo vivessero una vita propria coscienti l'una dell'esistenza dell'altra. Ne viene fuori un dualismo che rende la prima parte decisamente più intrigante e dinamica, fin dall'iniziale Bloom: tribalismo dinamico steso su un tappeto liquido di synth in loop. Basi alla Four Tet che si scontrano con le ritmiche selvagge di gente come i Liars, il tutto (estremamente affascinante nella sua raffinatezza) addolcito dal cantato malinconico di Thom Yorke. La marcetta iniziale “Bloom” racchiude perfettamente il senso dell’album: in bilico tra frastagliate linee ritmiche, superficiale freddezza e aperture alla Björk di “Debut” e “Homogenic”. Il canto sinuoso di Yorke al solito si pone da contraltare rispetto alla struttura, creando un perfetto incrocio tra calore e distacco.
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